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venerdì 8 febbraio 2013

LA STRAGE DEI PROCI.

Allora si denudò dei cenci l'accorto Odisseo,
balzo' sulla gran soglia, l'arco tenendo e la faretra,
piena di frecce, e versò i dardi rapidi
lì davanti ai suoi piedi, e parlò ai pretendenti:
" Questa gara funesta è finita;
adesso altro bersaglio,a cui mai tirò uomo,
saggerò, se lo centro, se mi da' il vanto Apollo".
Disse, e su Antìnoo puntò il dardo amaro.
Quello stava per alzare il bel calice,
d'oro, a due anse, lo teneva già in mano,
per bere il vino; in cuore la morte
non presagiva: chi avrebbe detto che tra banchettanti
un uomo, solo tra molti, fosse pure fortissimo,
doveva dargli mala morte, la tenebrosa Chera?
Ma Odisseo mirò alla gola e lo colse col dardo:
dritta attraverso il morbido collo passò la punta.
Si rovesciò sul fianco, il calice cadde di mano
al colpito, subito dalle narici uscì un fiotto denso
di sangue; rapidamente respinse la mensa
scalciando, e i cibi si versarono a terra:
pani e carni arrostite si insanguinarono. Gettarono un urlo
i pretendenti dentro la sala, a veder l'uomo cadere,
dai troni balzarono, in fuga per tutta la sala,
dappertutto spiando i solidi muri:
né scudo c'era, né asta robusta da prendere.
Urlavano contro l'Odisseo con irate parole:
"Straniero, male colpisci gli uomini! Mai più altre gare
farai: adesso è sicuro per te l'abisso di morte.
Hai ammazzato l'eroe più gagliardo
tra i giovani di Itaca: qui gli avvoltoi ti dovranno straziare".
Parlava così ciascuno, perchè credevano che non di proposito
avesse ucciso: questo, ciechi, ignoravano,
che tutti aveva raggiunto il termine morte.
Ma feroce guardandoli disse l'accorto Odisseo:
"Ah cani, non pensavate che indietro, a casa tornassi
dalla terra dei Teucri, perciò mi mangiate la casa,
delle mie schiave entrate per forza nel letto,
e mentre son vivo mi corteggiate la sposa,
senza temere gli dei, che l'ampio cielo possiedono,
né la vendetta, che in seguito potesse venire dagli uomini.
Ora tutti ha raggiunto il termine di morte!".

                                                             (ODISSEA, canto XXII)

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