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mercoledì 27 novembre 2013

LA PAZZIA DI ORLANDO

 

132
Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che 'l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l'ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
 
133
Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo:
l'arme sue tutte, insomma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l'ispido ventre e tutto l'petto e l' tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch'intenda.
 
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovvenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne,
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe' ben de le sue prove eccelse,
ch'un alto pino al primo crollo svelse:
 
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi,
di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.
Quel ch'un uccellator che s'apparecchi
il campo mondo fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche,
facea de cerri e d'altre piante antiche.
 
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a granpasso
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vò più tosto diferire,
che v'abbia per lunghezza a fastidire.
 
( Orlando Furioso, canto XXIII )  

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